Biografia di Meret Oppenheim
Meret Oppenheim era nata il 6 ottobre 1913 a Charlottenburg, oggi nel cuore della capitale tedesca e fino al 1920 una città autonoma.
Suo padre era un medico di Amburgo, Erich Alphons. Sua madre, Eva Wenger, era svizzera. Il suo insolito nome, Meret, veniva dall’episodio Meretlein del romanzo Grünen Heinrich dello scrittore, poeta e pittore elvetico Gottfried Keller. Anche Meret, oltre che artista, sarebbe stata poetessa. Ebbe un’ottima formazione, in parte legata agli insegnamenti di Rudolf Steiner, e dimostrò una particolare predisposizione, da subito, per il disegno, la storia e il tedesco. Sua nonna, Lisa Wenger, aveva già frequentato l’Accademia d’arte a Düsseldorf, ed era diventata pittrice e autrice di libri per ragazzi. Questo permise a Meret di entrare presto in contatto con gli ambienti artistici e letterari e, in particolare, con lo scrittore Herman Hesse, con il quale, per qualche anno, era stata sposata sua zia Ruth Wenger. Nonostante l’amore per Goethe e Rilke, però, nel 1931, la giovane Oppenheim decise di diventare artista.
Nel 1933 partì per Parigi insieme con un’altra pittrice e amica elvetica, Irène Zurkinden. E lì conobbe Alberto Giacometti e Hans Arp. In qualche modo il suo successo cominciò con l’orecchio di Alberto: la prima opera di Meret che ebbe risonanza si intitolava appunto L’orecchio di Giacometti. L’artista aveva allora 20 anni. Giacometti e Arp la invitarono a esporre, sempre nel 1933, al Salon des Surindependentes. Da quel momento fece parte del gruppo dei surrealisti.
In realtà, a parte le discriminazioni che anche gli artisti delle avanguardie riservavano alle donne, i tentativi di isolarle ed escluderle dalle esposizioni, di farle sentire sempre un po’ diverse, Meret era, per formazione e fantasia, già un “caso” a parte. Amava la psicanalisi. Le piacevano Klee, Modigliani, Matisse, il primo Picasso. Ma scelse sempre strade impervie e molto personali. Come quando, a 16 anni, segnò sulla copertina di un quaderno l’equazione X = coniglio. La scritta piacque tanto ad André Breton che la volle in regalo.
Era inquieta e trasgressiva: basti pensare a come si fece fotografare da Man Ray nel 1934. Nuda, davanti al torchio. O mentre leggeva a letto, con i peli pubici in primo piano. La svolta avvenne nel 1936, quando inventò la tazzina coperta di pelo e la battezzò Colazione in pelliccia. Il Museum of Modern Art di New York la comprò subito, per un corrispettivo di 250 euro. In barba a tutte le idee strampalate prodotte dai suoi colleghi, è rimasta l’opera simbolo del surrealismo. Lo stesso anno “incaprettò” un paio di scarpe da donna su un vassoio, facendole assomigliare a un pollo al forno, e le intitolò La mia tata. Ironia. Ma anche una spettacolare capacità di intuire quali provocazioni artistiche avrebbero superato la semplice soglia dello “scandalo” e si sarebbero imposte come idee-guida. La mia tata fu anche all’origine di uno scontro con la moglie di Max Ernst, Marie Berthe. Che chiese il divorzio. Non perché Ernst avesse procurato le scarpe alla Oppenheim. Ma perché Meret e Max, che si erano conosciuti a una festa nello studio di Kurt Seligmann, erano amanti: fu la goccia che fece traboccare il vaso. Anche se un anno dopo, temendo che la relazione con Ernst, ben più anziano di lei, soffocasse la sua vena artistica, Meret lo lasciò.
Per lei qualsiasi crisi di creatività era un serio problema, per questo si dedicò anche al design di mobili, di abiti e gioielli: dal 1936 i nazisti avevano bloccato l’attività di suo padre, di origini ebraiche, e la famiglia, prima benestante, si era trovata in difficoltà.
Nonostante il bisogno di lavorare, però, e l’importanza di poter esporre con altri artisti (con i surrealisti restò legata sino al 1937) Meret non rinunciava alle sue idee e alle polemiche. Non sopportava, per esempio, che si desse un’interpretazione troppo erotica delle sue invenzioni. Che pure erano spesso davvero trasgressive, come Festino di primavera, il pranzo-performance organizzato a casa sua sul corpo nudo di una modella. Meret si sentì fraintesa. Nel 1936 era riuscita a organizzare la sua prima personale, alla galleria Schulthess di Basilea. L’anno dopo tornò a stabilirsi nella città svizzera e per due anni frequentò la scuola di arti applicate. Intanto continuava a lavorare, anche se spesso distruggeva o lasciava incompiuti i suoi progetti. Fu in contatto con il Gruppo 33, che si opponeva sia al fascismo sia alle tendenze conservatrici dell’arte svizzera. E prese parte alla mostra di Allianz, un’altra associazione di artisti elvetici. Nel 1938 visitò con Leonor Fini e André Peyre de Mandiargues il Nord Italia. Nel 1939 tornò a Parigi per partecipare a una mostra sull’arredamento “fantastico” con, tra gli altri, Max Ernst e Leonor Fini. In quell’occasione presentò alcuni oggetti e il celebre tavolo con le zampe di uccello. Nel 1949 sposò Wolfgang La Roche con il quale visse sino alla morte di lui, a Berna, nel 1967. Nel frattempo Meret aveva superato una profonda crisi artistica. Nel 1958 riprese a lavorare a pieno ritmo: negli anni Settanta era ormai un’icona vivente. Morì il 15 novembre 1885, il giorno della presentazione del suo libro di poesie da lei stessa illustrato, Caroline, dedicato a Karoline von Günderode, la grande poetessa tedesca (1780-1806) che si era suicidata per amore.