Lotto 64

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Oggetto rituale in legno, parte di un altare votivo Igbo.

Bibliografia
Cole, H. 1984. Igbo arts: Community and Cosmos. Los Angeles: Museum of Cultural History, University of California.
Crawford Snowden, W. 1926. Thrills in A London House of Jujus. In The Evening News. Published in Hales, R., Cornu, K. 2016. W.O. Oldman. The Remarkable Collector. William Ockleford Oldman's Personal Archive. Brussels: published by the authors.
Hales, R., Cornu, K. 2016. W.O. Oldman. The Remarkable Collector. William Ockleford Oldman's Personal Archive. Brussels: published by the authors.
Strother, Z. 2016. Breaking Juju. Breaking Trade Museums and the Culture of Iconoclasm in Southern Nigeria. RES 67/68.
Waterfield, H., J. H. C. King. 2009. Provenance: Twelve Collectors of Ethnographic Art in England, 1760-1990. Somogy: Musée Barbier- Mueller, Paris-Genève.


Oggetto rituale in legno, parte di un altare votivo Igbo (Nigeria, regione di Delta) appartenuto alla collezione etnografica del rinomato collezionista William O. Oldman.
William Ockleford Oldman (1879-1949) è stato un collezionista britannico, commerciante di arte etnografica, armi e armature europee. Possiamo considerarlo in assoluto il pioniere del collezionismo legato alle arti del Pacifico e dell’Africa occidentale. La sua attività “W.O. Oldman, Ethnographical Specimens” locata a Londra fu attiva tra la fine del 1890 e il 1913. Oldman acquistò oggetti da vari fonti, tra cui case d’asta, direttamente da altri collezionisti e commercianti e anche da molteplici musei britannici e case museo. Organizzò regolarmente aste per rivendere gli oggetti in suo possesso, e riservò diversi lotti anche per collezionisti privati, studiosi e istituzioni, tra cui il Museum of the American Indian, il British Museum, e il Te Papa di Auckland.
L’oggetto in questione presenta due scanalature, una sulla parte superiore e una alla base, alle quali erano applicate serie di elementi (ossa, perline, conchiglie) che avevano probabilmente una funzione religiosa. Inoltre, sulla parte inferiore si nota l’intarsio di un elemento geometrico triangolare a cinque punte, tipico della popolazione Igbo. Applicata sulla parte superiore troviamo un’etichetta autografa, firmata da Oldman stesso nel 1920, che ne testimonia l’importanza e la rarità.
Di seguito la trascrizione:

“Joss of wood and beads from the Opobo river (West Africa). This joss has a great power amongst natives and was recovered after great difficulty by the British trader in the District on account of its savage influence. It had been stolen several times and recovered after serious loss of life”.
Oldman July 1920
Traduzione:
“Joss (ceppo) di legno e perline dal fiume Opobo (Africa occidentale). Questo Joss ha un grande potere tra i nativi ed è stato recuperato dopo grandi difficoltà dal commerciante britannico [stanziato] nel distretto a causa della sua influenza selvaggia/efferata. Era stato rubato più volte e recuperato dopo gravi perdite di vite umane.
Oldman luglio 1920
La fitta descrizione riportata meticolosamente da Oldman nell’etichetta trova riscontro in un articolo pubblicato nel quotidiano britannico “The Evening News” (1 dicembre 1926), a cura di W. Crawford Snowden, intitolato “Thrills in a London House of Jujus”, nel quale viene narrata l’acquisizione da parte di Oldman di three idols (tre idoli), uno dei quali è rimasto da allora sul suo tavolo:
[A British officer] had been a member of a punitive expedition in Yoruba-land on the West Coast of Africa, and in the course of it he had helped to sack a native joss house. Among other things they took were three wooden idols. At the time the soldiers thought nothing of the fact that the medicine man to whom they belonged no doubt bestowed on these jujus a vociferous and hearty curse. […] One of them has remained ever since on his desk.
Nel classificare l’oggetto, Oldman utilizzò il termine joss, il quale non è traducibile né come “legno”, né dà un’indicazione tassonomica sulla tipologia dell’elemento. Inoltre, la mancanza di segni tonali nella scrittura della parola e la morfologia stessa di questa, rimandano ad un termine di derivazione europea più che proveniente da un ceppo Delta o di lingue Congo-Atlantiche. Nei territori colonizzati era comune si scegliesse una lingua franca per comunicare tra colonizzatori e popolazioni locali, ma che anche si creassero dei pidgin, ovvero degli idiomi derivanti dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti. Nel caso della parola joss, questa può essere intesa come il riadattamento, il sinonimo, o la semplificazione della parola pidgin ju-ju, derivante dal francese jou (giocattolo) e dall’Igbo dschu-dschu, termine con il quale gli Igbo indicavano il serpente e, più ampiamente, i rettili sacri alla popolazione. Il neologismo ju-ju derivante dal pidgin inglese entrò ampiamente nel vocabolario narrativo coloniale, infatti spesso si ritrova nelle etnografie e pubblicazioni di primo Novecento, ma il suo significato rimane generico ed indicante un qualsiasi oggetto sacro utilizzato in ambito cultuale. Nell’ambito degli scritti coloniali, ju-ju è utilizzato in modo peggiorativo e derisorio; dopo il saccheggio del Palazzo Reale di Benin City (odierna Nigeria) avvenuto nel 1897 ad opera dell’ammiraglio Sir Harry Rawson, la propaganda imperialista britannica promosse campagne di screditamento nei confronti delle popolazioni locali nigeriane, dipingendole come abitanti la “terra di ju-ju”, dove qualsiasi rituale veniva giustificato con del sangue versato, ergo un territorio considerato terra nullius, selvaggio, dunque da civilizzare non solo dai britannici, ma anche dai missionari sia protestanti che cattolici. L’appellativo ju-ju venne così associato alla cosiddetta “magia nera” legata a pratiche pericolose e occulte, producendo in questo modo una visione totalmente distorta della religione Igbo, e andando così a giustificare i saccheggi e le distruzioni.

Nella regione nigeriana di Delta, spesso inglobata in modo generico nello Yorubaland, i santuari assunsero l’appellativo di ju-ju, appellativo che richiamava sia la potenza sacra dei rettili, sia i rituali magico-guaritivi accompagnati dall’uso di oggetti “di potere” praticati all’interno delle strutture che poi divennero note come ju-ju houses. La loro funzione venne progressivamente demonizzata nelle narrative coloniali e in quelle dei missionari protestanti (CMS, the Church Missionary Society), i quali accusarono i capi locali di antropofagia, trovando così una giustificazione per estinguerle.
Le ju-ju houses erano in realtà santuari comunitari utilizzati dalle popolazioni locali (Igbo e correlati sottogruppi) per svolgere transazioni commerciali, siglare trattati di pace, o per finalità religiose. A partire dal 1880, se non prima, santuari e altari locali, che al loro interno ospitavano oggetti richiamanti culti dedicati a divinità specifiche come, ad esempio, Ikenga o Yok Obòlò, erano diventati gli obiettivi delle campagne sistematiche di distruzione ad opera della WAFF (The West African Frontier Force) in tutta la Nigeria che diventò colonia britannica nel 1914. Il modus operandi seguito dalla WAFF prevedeva prima il saccheggio dei santuari, in genere creati con materiale organico e corredati di sculture lignee o in bronzo, avori, insegne di potere e teschi degli antenati, e poi la loro distruzione che solitamente avveniva tramite incendio.

Sradicare i santuari di qualsiasi dimensione ed importanza (dunque sia comunitari che privati) significava indebolire il tessuto geo-politico e sociale acefalo—ovvero privo di un monarca comune—agevolando così l’imposizione dell’indirect rule britannica. Sebbene le comunità locali cercassero di resistere ai continui assedi alle volte combattendo per giorni interi, e ricostruissero i santuari più importanti, l’avanzata della WAFF e la preparazione tecnica dei soldati era evidentemente superiore a quella locale. Questo dato giustifica lo scritto di Oldman sull’etichetta: “it had been stolen several times and recovered after serious loss of life”. È possibile che, vista l’importanza del santuario di cui faceva parte il cosiddetto joss, la popolazione abbia tentato di nasconderlo e di recuperarlo dalle mani dei britannici a costo di rimetterci la vita. L’aggettivo “serious” utilizzato da Oldman indica che, con ogni probabilità, il joss fosse collocato in un santuario molto frequentato, potente, e di nota importanza per gli Igbo. A riprova di ciò, vi è l’indicazione geografica riportata nell’etichetta, che indica “Opobo river” come luogo di provenienza dell’oggetto.

La città di Opobo, collocata nella regione di Rivers State (Eastern Nigeria Delta) sul fiume Imo, è stata fondata da re Jaja dopo la fine della guerra civile di Bonny (Ibani), durata quattro anni, dal 1869 al 1873.
Jaja di Opobo (1821-1891) è stato il re della città di Opobo nell'attuale Nigeria meridionale che, negli ultimi anni dell’Ottocento, diventò una potenza economica e il centro del commercio di olio di palma del Niger orientale. Re Jaja fu esiliato dagli inglesi nelle Barbados (1888) per la presunta rottura dei trattati relativi al commercio dell'olio di palma, sfidando così il monopolio della Royal Niger Company britannica stabilita sulla costa africana. Morì in mare durante un tentativo di rientro ad Opobo nel 1891.

Come riporta Kenneth C. Murray (1944:135), il primo Surveyor of Antiquities della Nigeria, e poi il primo direttore del Museo Nazionale della Nigeria (Lagos), negli anni Quaranta ad Opobo vi erano svariati “ancestral shrines” di grande importanza lasciati in totale rovina dopo l’esilio forzato di re Jaja. Sebbene Murray non entri nel dettaglio indicando quali divinità locali fossero dedicati i santuari, è possibile che uno o più di questi fosse dedicato ad Ikenga. In questo caso, è nuovamente la descrizione riportata dell’articolo redatto da W. Crawford Snowden a fare chiarezza:
[…]This terrible juju had no definable shape: it weights perhaps a couple of pounds. It is “adorned” with human and knuckle bones, bits of antelope horn and cowrie shells.
La descrizione, oltre ad indentificare con ogni probabilità il joss della collezione Oldman, restituisce anche un chiaro rimando ad un santuario o altare portatile dedicato ad Ikenga nella sua forma originaria, ovvero quella astratta con il corpo cilindrico. Nella cosmologia Igbo, Ikenga rappresenta il simbolo delle aspettative spirituali dell'individuo e dei risultati raggiunti in vita dall’uomo. Ikenga è associato all’essere personale (chi), ai suoi antenati (indichie) e al suo potere (ike) espressi nella potenza della sua mano destra (aka Ikenga). Le rappresentazioni geometriche di Ikenga sono spesso decorate da cipree (cowrie shells), perline di vetro, corna di antilope e materiale organico; esse si potevano trovare abbinate ad altre insegne cerimoniali collocate all’interno di un altare portatile a sua volta posto in un santuario comunitario o familiare. Un esempio simile è visibile nella documentazione fotografica del Jonas archive (Southern Illinois University), nel quale la potenza dell’altare dedicato ad Ikenga è implementata da insegne di potere e Ikenga geometrici.

Misure: 16.0 x 11.0 cm

Dipartimento WUNDERKAMMER, CURIOSITIES & ETNOGRAFICA

Base d'asta: 1.000,00

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